Il 10 agosto 1867 è la data che spezza in due la vita di Giovanni Pascoli, per sempre. Quel giorno suo padre Ruggero venne ucciso e non ebbe mai giustizia. Una morte che dilaniò l’intera famiglia: l’anno successivo si spense la sorella maggiore e subito dopo la madre Caterina. Da allora Pascoli fu per sempre una persona “dipendente”, dapprima dalla miseria con la quale dovette convivere per affrontare gli studi, poi dall’ urgente, insopprimibile bisogno di ricostituire il “nido” perduto, in seguito dall’alcol e, infine, dalla sorella Mariù
La morte del poeta, avvenuta nel 1912 a 57 anni dopo anni di malattia, pone fine ad una esistenza tormentata, ricca di successi e riconoscimenti nel campo della letteratura ma chiusa ermeticamente nel luogo segreto, nel “nido” morbosamente ricostruito con le sorelle, pieno di complici affetti viscerali, alimentato da un linguaggio esclusivo nella vita privata. La dipendenza dall’alcol aggiungeva dolore al dolore, non cicatrizzava le ferite, non scioglieva i nodi. Le belle e fornite cantine dei Pascoli, i continui rifornimenti di botti di Marsala che arrivavano dalla Sicilia, spediti dalla famiglia Florio, costituivano l’aspetto visibile e allegro dell’alcol, l’abuso del quale era negato davanti alla gente, come innominabile dipendenza. Quando Pascoli sta per morire, non viene portato in ospedale perché quel passaggio avrebbe comportato un’ufficiale attestazione delle cause del decesso che non potevano, non dovevano essere diffuse. Il poeta, così amato e così apprezzato dalla gente, non avrebbe mai voluto mostrare al mondo i segni della sua estrema fragilità, della sua sconfitta umana, della sua impossibilità di riscatto, anche se, purtroppo, in molti avevano visto il suo stato di ebbrezza anche quando doveva recarsi a lezione.
Il grosso dell’eredità del poeta va a Mariù che vivrà fino al 1953 nell’agio, custode gelosa della memoria del fratello così come, lui vivo, era stata il suo demone distruttivo. Mariù non rispetta nemmeno le ultime volontà del Pascoli e fa costruire una tomba a sua misura, con piccole fessure e tappi dove lei, esile e minuta, poteva introdurre le mani per arrivare a toccare il corpo di Giovanni. Per capire poi fino a che punto esercitò il suo potere su di lui, basti pensare che la carta da lettere del poeta era intestata a “Giovanni Pascoli e sorella”.
Come afferma lo psichiatra Vittorino Andreoli che ha a lungo studiato minuziosamente documenti e scritti, anche inediti, della famiglia, l’io del Pascoli non è mai solo, è sempre in famiglia, in un amore infetto, una sublimazione perfetta, attaccato e incollato all’istituzione familiare.
Quel 10 agosto fa sì che la vita del poeta sia sempre nel segno della sofferenza, con il desiderio bruciante di ricostruire l’identità perduta del padre che era la forza, la sicurezza, l’autorità, la protezione dei piccoli e, subito dopo, della madre vero centro dei sentimenti e custode degli affetti. Il nuovo “nido” però, con Ida e Mariù, è fonte di segreti, di amore malato, di mancanza di serenità: da un lato “il nido” come l’alfa e l’omega della vita, dall’altro come luogo chiuso e asfittico, una prigione claustrofobica. Tutta la vita del Pascoli appare così come un ostinato, tenace tentativo di ridare vita ai ricordi infantili e per questo il matrimonio di Ida sarà sentito come un tradimento, un abbandono, un altro colpo mortale della vita, dietro il quale nascondersi.
Nei versi del Pascoli non troviamo lo scorrere dell‘alcol se non in alcuni singoli momenti, la sua attenzione si concentra invece su un argomento strettamene collegato ma di cui è più facile parlare: la vite. La vite riveste particolare importanza arrivando ad identificarsi, così nodosa e torta, con la vita stessa del poeta e il suo grappolo si confonde tra foglie, gemme, pampini e fiori.
Un primo testo (tratto da Myricae), è I Tre Grappoli:
«Ha tre, Giacinto, grappoli la vite/
Bevi del primo il limpido piacere, / bevi dell’altro l’oblio breve;/e più non bere; / ché sonno è il terzo, e con lo sguardo acuto / nel nero sonno vigila, da un canto, / sappi, il dolore; e alto grida un muto / pianto già pianto».
In questi versi troviamo esemplificati gli effetti del vino, il primo bicchiere offre un piacere trasparente come lo stesso vino, il secondo regala un momento di oblio ma qui il poeta invita a fermarsi perché il terzo bicchiere sarà ingannatore e darà un sonno profondo che non rimuove il dolore, anzi, finisce col rinnovarlo e acuirlo. Il monito del Pascoli è chiaro: non cercate nel vino il rimedio al pianto perché non lo troverete, troverete solo una sofferenza più intensa.
In un’altra lirica, Germoglio (sempre della stessa raccolta):
”… grappolo verde e pendulo, che invaia/ alle prime acque fumide d’agosto / quando il villano sente sopra l’aia / piovere mosto…allor che singultando nel bicchiere/ sdruc- ciola vino; il vino che rosso avanti il focolare / brilla, al fischiare della tramontana, / che giunge come un fragoroso mare / e s’allontana / simile a sogno; quando su le strade / volano foglie cui persegue il cuore / simili a sogno; quando tutto cade, stringesi e muore/ Muore? Anche un sogno, che sognai! Germoglia /la scabra vite che il lichene ingromma: / spunta da un nodo una lanosa foglia / molle di gomma»
Il vino rosseggia e brilla, consolatorio davanti al fuoco e all’arrivo della tramontana ma poi tutto si trasforma in sogno, decade e muore..
Anche nei Canti di Castelvecchio, la vite ha la sua importanza perché sottolinea il progredire delle opere e dei giorni e la corrispondenza tra ciclo della natura e ritmo del lavoro umano.
«Quando apparisce l’oro nel grano / col verdolino nuovo dei tralci». Con il grano, il vino rappresenta per antonomasia il risultato delle fatiche di una famiglia contadina che, conversando fino a L’or di notte, avverte nei rintocchi del campanile la supplica dei morti che vogliono riposare in silenzio, senza ricordare le care cose della vita: «Non vogliamo ricordare / vino e grano, monte e piano, / la capanna, il focolare, / mamma, bimbi…Fate piano! / piano! piano! piano! piano!».
Ma qui c’è anche qualcosa di più, c’è un profondo dolore, c’è quasi un rancore dei vivi nei confronti dei morti che si sono sottratti ai legami familiari, al loro affetto, ai loro bisogni e vogliono solo non ricordare e pretendono il silenzio.
Giovanni Pascoli, al di là delle grandi innovazioni stilistiche e linguistiche adottate è un poeta complesso, che merita sempre un’analisi approfondita e mai di essere liquidato come poeta per le scuole elementari e, soprattutto, merita quell’umana pietas che tutti noi dobbiamo provare di fronte ad una vita che mostra i segni della tribolazione e di una profonda, inguaribile inquietudine.