Rèsumé:
I rasoi fanno male
i fiumi sono freddi
l’acido lascia tracce
le droghe danno i crampi
le pistole sono illegali
i cappi cedono
il gas ha un odore nauseante…
Tanto vale vivere.
Qualunque articolo, saggio, biografia su Dorothy Parker leggiate è sicuro che riporterà questi versi, i più conosciuti di questa creatura acuta e bizzarra, scombinata e graffiante, frivola e profonda, intelligente e disperata, capace di scherzare anche sui suoi tentativi di suicidio. Nata nel 1893 a Long Branch, da un ramo cadetto dei Rothschild, vive un’infanzia tutt’altro che felice, segnata da lutti e rapporti familiari complicati: rimane orfana di madre a soli cinque anni, non sopporta il padre, severo e distante, e soprattutto la matrigna.
Ha avuto il destino di essere conosciuta da molti ma letta da pochi, forse perché sentita appartenente più al mondo di Hollywood, del cinema e dei telefilm che non alla letteratura, eppure è stata, oltre che sceneggiatrice, giornalista per varie testate, poetessa apprezzata da Hemingway, autrice di testi per ballate cantate anche da Frank Sinatra, scrittrice di tanti racconti letti alla radio. Soprattutto è stata una donna fuori dagli schemi, colta, arguta, brillante, capace di mettere sotto la lente d’ingrandimento ipocrisie, manie, perfidie della classe medio/alta della borghesia newyorkese del suo tempo, (ed anche di sé stessa con le sue contraddizioni) con il mito della bella casetta e della perfetta famigliola americana oltre che capace di combattere con coraggio contro le discriminazioni razziali. Sicuramente bisognosa di amore ma in questo campo sfortunata e sofferente. E dedita al bere: champagne e gin soprattutto. A portarla via per sempre, ormai povera, sola e quasi cieca, fu un infarto nel 1967. Volle che i diritti delle sue opere andassero alla Fondazione di Martin Luther King.

Per circa un decennio negli USA, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, brilla quell’epoca d’oro detta degli “anni ruggenti del jazz”, caratterizzata da spensieratezza e benessere crescente per buona parte della gente, ogni sogno sembra realizzabile e Francis Scott Fitzgerald scrive Il Grande Gatsby. E’ anche l’epoca del Proibizionismo detto anche “The noble experiment”, ma gli americani si arrangiano molto bene per continuare a bere. E’ in questi anni che si afferma Dorothy Parker per humour e battute mordaci sempre pronte, per cinismo e allegria. Poi il Martedì Nero del crollo della Borsa di New York nel 1929 spezza i sogni e spazza via le illusioni. Quelli, però, rimarranno gli anni migliori di Dorothy, i più ricchi, i più creativi. Aveva sperimentato la sua indipendenza, la sua originalità, il suo essere caustica con leggerezza, sempre seduta tra uomini, all’Algonquin Round Table come sul palcoscenico di un teatro intellettuale e culturale. Un cenacolo, di cui facevano parte scrittori, critici, attori e letterati che godette di grande reputazione ma la cui importanza venne in seguito ridimensionata anche dalla stessa Parker.
Quegli anni ruggenti finiscono con l’imporre un’etichetta, uno schema di comportamenti e Dorothy, nel suo ruolo di regina dei salotti letterari, col suo boa di struzzo, il gin accompagnato da qualche pasticca di Seconal, rivelerà in una delle tante interviste rilasciate nel corso della sua carriera: “Dannazione, erano gli anni ‘Venti e noi dovevamo essere brillanti. Volevo essere arguta- Questa cosa è terribile, avrei dovuto avere più buonsenso”
Il lavoro della Parker è stato come la realizzazione di un mosaico perché, racconto dopo racconto,mette insieme le tessere di un puzzle vitale della società nella quale si muove. Incasella i falsi miti, il perbenismo, la solitudine delle donne, il vuoto dei dialoghi in famiglia, la superficialità della società, la perfidia, il dolore nascosto.
Come succede quasi sempre agli artisti che abusano dell’alcol, vita personale e letteratura si mescolano, si confondono e le donne dei racconti di Dorothy (come lei stessa nonostante tutta la sua indipendenza) sono abituate a pensarsi incomplete se non hanno accanto un uomo. Sono donne belle, bellissime e curate. Sono donne che aspettano al telefono per ore un uomo che ha promesso di chiamarle ma non le chiama, un marito che non le considera, che non le desidera più o non le ha mai amate davvero. Eppure, tutte desiderano le stesse cose, i simboli di una supposta felicità: “una bella casetta. Un marito dolce, sobrio, puntuale per cena, sollecito al lavoro. (…) serate tranquille e serene”. Questo passo è tratto da Una bella bionda, uno dei più emblematici racconti della Parker, fortemente autobiografico, dove la fragilità e la disperata solitudine della protagonista rendono la storia dolorosa, anche se poi questa è solo una delle tante sfaccettature della personalità della scrittrice. Basta leggere l’incipit per capire il tipo di pressione che la società di quegli anni riserva alle donne: “Hazel Morse era una bella donna, alta e formosa, il tipo che spinge certi uomini, quando pronunciano “bionda”, a schioccare la lingua scuotendo maliziosamente la testa. Si vantava dei suoi piedini minuscoli e soffriva per vanità costringendoli in scarpine strette con tacchi a spillo, della misura più piccola che riuscisse a sopportare.”
I piedi costretti nelle scarpine di velluto, quasi tortura del Loto d’0ro cinese, il cervello nascosto sotto aggraziati cappellini, le donne di Dorothy finiscono col diventare quella maschera che si impongono, soffrono, ma non riescono a mettere fuoco le ragioni del loro dolore. L’alcol è una consolazione che però dura un attimo. Meglio sognare di scappare, o di morire. Ancora Una bella bionda, in una delle ultime scene: Hazel è nei pressi della Sesta Avenue, deve recarsi ad un appuntamento con un uomo del quale non le importa nulla, è già ubriaca. Una carrozza le passa accanto, trainata da un cavallo pieno di cicatrici; l’animale si schianta sulla strada e non riesce a rialzarsi. Il cocchiere frusta ripetutamente l’animale a sangue, senza pietà. Hazel è sconvolta, entra nel locale dove l’attende l’uomo di cui non ricorda bene il nome, comunque uno dei tanti dopo l’abbandono da parte del marito, dice senza fiato: “Ho visto un cavallo, Gesù… io… che pena per quei cavalli. Io… non sono solo i cavalli. Tutto è orribile, non è vero? Non posso farci niente, mi deprimo.”
“Ah, ti deprimi, che palle”, disse lui.
In Composizione in bianco e in nero la Parker, in tono leggero, fa parlare una donna dell’alta borghesia che ha appena conosciuto un ottimo musicista nero. Nel chiacchierare frivolo e salottiero di lei, la scrittrice mostra ogni sfumatura dell’animo umano, mettendo in risalto le ambiguità e come l’apparente bontà non sia altro che una maschera di puro razzismo in abiti raffinati: “Mi è proprio piaciuto – disse lei – non ho il minimo pregiudizio per il fatto che sia nero. Mi sono sentita a mio agio, come con chiunque. Gli ho parlato con la massima naturalezza. Ma posso essere sincera? Ho fatto fatica a rimanere seria. Continuavo a pensare a Burton. Oh, si figuri quando gli dirò che l’ho chiamato ‘Signore’!”. “eh, per quanto mi riguarda, non la penso affatto come lui. Non ho il più piccolo pregiudizio verso i neri. Anzi, per qualcuno di loro vado addirittura pazza. Sono come bambini: senza un pensiero al mondo, sempre a cantare e a ridere e a ballare.”
Nel raccontoVestire gli ignudila Parker fa andare in scena, in maniera profondamente coinvolgente e toccante, il dramma della povertà estrema, della malattia, del razzismo e dell’ingiustizia ed è un racconto così intenso che andrebbe letto o riletto per capire quante corde era in grado di toccare questa scrittrice.
Anche con le donne non è tenera e in La signora della lampada, racconto nel quale anche il titolo ironizza sui modi, sui fatti e sui veri sentimenti della protagonista che è ben lontana dalla figura di Florence Nightingale che si batté tutta la vita per migliorare le condizioni dei malati negli ospedali civili e militari. Qui si tratta del monologo di una donna dell’alta borghesia che, apparentemente mossa solo dall’amicizia, va a trovare a casa l’amica malata, a letto da dieci giorni. In realtà va a farle visita per pettegolezzo, per capire cosa sia davvero accaduto, per farle critiche, per insinuarle dubbi, per farle sapere che l’uomo che lei ama la tradisce apertamente. Tutto quello che viene detto è ipocrita e perfino crudele, tutto provoca dolore sebbene accompagnato da paroline come “cara”, “piccina”, “io ti capisco”. Di fatto questo racconto è un breve, superlativo testo teatrale, nel quale sentiamo sì solo le parole di una signora ma allo stesso tempo è come se sentissimo e perfino vedessimo le reazioni, i pensieri e i sentimenti dell’altra.
Il 5 dicembre 2011, in omaggio a Dorothy, è stato lanciato sul mercato il “Dorothy Parker Gin” dalla New York Distilling Company. Il General Manager, Allen Katz, è da sempre un appassionato della Parker e ha dichiarato d’essere molto meravigliato che gente di trenta o quaranta anni non la conosca affatto. Avendo da ragazzo anche scritto un musical basato sui racconti di lei, quando si è trovato nella possibilità di scegliere un nome di donna per un nuovo brand, Allen ha pensato subito a Dorothy, dimenticata da molti ma non da lui e il nuovo marchio vuole essere un gentile tributo alla Parker in generale, riconoscendole di essere stata una delle menti più brillanti della sua generazione, non solo per il suo amore per il gin. L’etichetta della bottiglia con il profilo della Parker è stata disegnata dal leggendario disegnatore Milton Glaser, creatore dell’iconico “I LOVE NY”.

Esiste anche il cocktail “Tu la conosci Dorothy?” a base di gin e vodka, inventato dalla bar manager Ilaria Bello del Talea di Torvaianica. Il cocktail è ispirato al personaggio principale del film “Ragazze Interrotte” del 1999, la cui personalità fragile, cinica e malinconica ricorda quella di Dorothy.
La complessità di Dorothy Parker la si intuisce anche dalla sua costante ricerca dell’infelicità, come è stato detto da qualcuno, dalla spietata autoanalisi di cui era capace, come in questa poesia che riportiamo con piacere e con la speranza che non sia solo l’alcol, per quanto sistemato in una bottiglia glamour, a ricordarla.
Sintomi
Non sopporto il mio stato mentale:
sono scontenta, garrula, asociale.
Odio i miei piedi, odio le mie mani,
non m’interessano lidi lontani.
Temo il mattino, la luce del giorno;
odio, la notte, al letto far ritorno.
Maldico chi agisce onestamente
non tollero lo scherzo più innocente.
Non mi appagano un quadro, una lettura:
per me il mondo è soltanto spazzatura.
Sono cinica, vuota, scombinata.
Non so come non mi abbiano arrestata
per quel che penso. I vecchi sogni andati,
l’anima a pezzi, i sensi torturati.