“La storia della mia vita non esiste”. Del resto, nessuna storia è possibile: “Scrivere non è raccontare storie: è il contrario di raccontare storie. È raccontare tutto insieme. Raccontare la storia e l’assenza di questa storia” . Il raccontare, dunque, cammina per altre strade, per oasi che creano miraggi “…vaste zone dove sembra che ci sia qualcuno, ma non è vero”. “La letteratura deve rappresentare l’illecito, dire quello che la gente solitamente non dice. La letteratura deve essere scandalosa.”
Degli scrittori alcolisti dei quali ci siamo occupati finora, Marguerite Duras è la più difficile da trattare, la più sfuggente e segnata, la più audace e ribelle, la più ostica ed erotica. Libera, libera da tutto: convenzioni, moralismi, stereotipi, pregiudizi, linguaggio banale, libera da tutto ma non dal dolore, non dalla solitudine, non dall’alcol. Alcolista, anche lei catturata nella gabbia soffocante e mortale del bere, condizionata per sempre dalle vicende familiari alle quali perennemente ritorna, come in pellegrinaggio, e che costituiscono il perno intorno al quale ruota tutta la sua opera, anche dopo tanti anni dai fatti accaduti o solo interiormente vissuti-
“Non bevevo mai per essere ubriaca. Non bevevo mai in fretta. Bevevo continuamente e non ero mai ubriaca. Lontana dal mondo, irraggiungibile, ma non ubriaca. Una donna che beve è come se bevesse un animale, un bambino. L’alcolismo diventa scandalo se chi beve è una donna: una donna alcolizzata è raro, è grave. È la natura divina che è colpita”
“La solitudine significa anche: o la morte o il libro. Ma innanzi tutto significa alcol.”
“ E’ sempre troppo tardi quando le persone dicono a qualcuno che beve troppo, non sai mai di essere un alcolizzato. Nel cento per cento dei casi viene preso come un insulto.”
In “L’amante” Marguerite afferma che l’alcol ha fatto quello che Dio non ha fatto e proprio l’alcol nell’età di mezzo è la causa dell’improvviso invecchiamento del suo viso, ancora prima che bevesse,” ho un viso distrutto, lacerato da profonde rughe… Presto fu tardi nella mia vita, sono invecchiata a diciotto anni. Un invecchiamento brutale. Avevo paura di Dio, volevo uccidere il mio fratello maggiore così amato da mia madre. Il volto dell’alcol ha preceduto l‘alcol. Volto leggibile, occhi cerchiati prima del tempo.”
Afferma che due sono le soluzioni possibili contro la disperazione e non necessariamente alternative: l’alcol e la scrittura. Le pratica entrambe intensamente e caparbiamente: “Ho vissuto sola con l’alcool intere estati… Ho bevuto subito come un’alcolizzata… L’alcol è stato fatto per sopportare il vuoto dell’universo, l’oscillare dei pianeti, il loro ruotare imperturbabile nello spazio.” Senza però “…riuscire ad arrivare alla sostanza delle cose.” Illusione, solo illusione.
Marguerite soffriva di cirrosi in fase avanzata e più volte tentò di disintossicarsi dall’alcol. Alcuni personaggi sono stati partoriti dalla sua mente in subbuglio, preda di allucinazioni in piena regola provocate dal delirium tremens dovuto all’astinenza. E che mente aveva Marguerite! Era capace di una scrittura unica, sempre studiata e perfezionata, di uno stile personalissimo, di innovative sceneggiature di film, di raccontare il perenne dolore, la follia di una madre amata e odiata, di stimolare altri autori, di rinnovare il linguaggio, di occuparsi di politica, sebbene venisse allontanata dal Partito Comunista francese che con i suoi rigidi schemi e imposizioni pesanti era solo un grosso ostacolo per lei che non li sopportava.
Marguerite, nata nel 1914 a Saigon, nell’Indocina francese, attraversa le due guerre mondiali e tutto il secolo XX, morendo a Parigi nel 1996. Tra una sponda e l’altra della vita, tra Oriente ed Occidente si consuma la sua intensa esistenza. La prematura scomparsa del padre, quando lei ha solo quattro anni e la conseguente solitudine disperata della madre, costretta a mandare avanti tre figli senza aiuto, sono i fatti che segnano per sempre l’esistenza della scrittrice. La madre per tirare avanti compra da coloni francesi, investendo tutti i suoi risparmi, un terreno che risulterà inutilizzabile, un vero e proprio raggiro, perché sistematicamente invaso dalle acque del Pacifico e, quindi, incoltivabile. Questo tragico episodio, questa truffa, rende la figura della madre agli occhi della figlia un’interprete della tragedia greca, epica, centrale, ineluttabile. Depressa, poi rabbiosa e alla fine folle questa figura di madre ispira sentimenti contrastanti e ambivalenti e sicuramente non regala serenità. Marguerite cresce col suo mondo interiore complesso, amando il fratellino più piccolo, odiando l’altro e con questo contesto avrà sempre a che fare, anche per molti anni dopo la morte della madre e dell’adorato fratellino. La madre. I fratelli. La famiglia: un quadro psichicamente devastante, le cui patologie originarie vengono rese più gravi dalla disgregazione del potere politico, economico e sociale già in atto del colonialismo francese in tutta l’Indocina. E per i tre fratelli e la madre c’è solo una vita misera, fatta di incomunicabilità, scenate, assenza di calore, privazione di qualsiasi occasione per gioire e festeggiare ma anche della memoria dei morti. Un giorno, quando Marguerite ha quindici anni, sul traghetto che attraversa quel fiume dalle acque impenetrabili che è il Mekong, per lei si concretizza una possibilità diversa, inedita, inaspettata, illusione o realtà che sia: l’amore. L’amore con i tratti della passione che non l’abbandonerà più e la spingerà sempre a cercare amanti. Come l’alcol, “…dopo è sempre terribile…” perché è “…proprio come morire…”. La vita è sempre avvinghiata alla morte e c’è sempre una madre che ti dona l’una imponendoti anche l’altra. Si apre così, con l’amore appassionato “…il baratro che mia madre mi annuncia sempre…”.
Nel 1984 esce il suo romanzo di maggior successo, anche se lei aveva già scritto tanto, il romanzo che la rende conosciuta a livello mondiale, che vende moltissime copie, che segna un cesura, anche stilistica, con la produzione precedente e al quale seguirà un film (che a lei non piacerà) dallo stesso titolo: “L’amante”. Ecco l’incontro, autobiografico, di più di cinquant’anni prima, tra la ragazzina bianca quindicenne, con le trecce, che indossa un vestito di seta chiara della madre, che porta spavaldamente un cappello di paglia da uomo e scarpe di lamé con tacco e un cinese ricchissimo, di dodici anni più grande di lei. Questo incontro si ripeterà tante e tante volte, il rapporto durerà un anno e mezzo, finché Marguerite partirà con tutta la famiglia per la Francia, per non tornare mai più fisicamente nel Vietnam, se non con la memoria, per tutto il resto della sua vita. Quell’incontro diventa ben presto piacere sessuale puro, desiderio di affrancarsi, diventa un amore scandaloso in grado di sfidare ogni convenzione sociale delle colonie. Un amore contrastato sia dalla famiglia di lui che vede in lei una ragazzina di modeste condizioni e di un’altra razza, non adatta a dare un erede, sia dalla famiglia di lei che, però, cinicamente sfrutta il denaro dell’uomo.
Sappiamo che nella letteratura della Duras è sempre ciò che non c’è o che non accade a far scaturire una storia, non tanto l’episodio in sé, dunque, quanto ciò che gli sta attorno e non si vede. Infatti nel romanzo, oltre la storia dell’incontro tra la bambina bianca con le trecce e un abito non adatto e l’uomo cinese più maturo ma dal fisico gracile e dal carattere fragile, si addensano e contano tutti gli anni che verranno, nei quali non saranno mai più insieme, con le loro esperienze diverse, col desiderio dell’uomo di risentirla per telefono e salutarla un’ultima volta. La Duras diceva che manca la fotografia del momento nel quale la bambina decideva di offrirsi all’uomo ma quello scatto mancante è proprio ciò che permette a quell’immagine di rimanere viva e assoluta perché la fotografia avrebbe ripetuto all’infinito e meccanicamente ciò che nell’esistenza non è stato fisso, né meccanico, né infinito.
Sia Vittorini che Italo Calvino furono da subito grandi ammiratori delle tecniche di scrittura della Duras, ricondotte da molti al Nouveau roman, nonostante la scrittrice fosse sempre del tutto originale rispetto a qualsiasi movimento culturale. Nel romanzo abilmente si intersecano diversi piani temporali e spaziali, la scrittura segue il flusso del pensiero, diviene essenziale, rarefatta, profonda nelle riflessioni. La storia va avanti e attraversa anni, luoghi, esperienze e dolori. La narrazione alterna l’uso della prima persona con quello della terza, il che crea uno spostamento continuo del punto di vista, senza perdere la naturalezza e rendendo vivace il racconto. Le frasi sono brevi, veloci, dure, essenziali, incisive. E la scrittura in se stessa è parte fondamentale e scrivere significa vivere, coincide col vivere. “Cos’è questo bisogno costante parallelo alla vita, di scrivere? Cos’è questo tradimento fondamentale di tutti e di sé? Cos’è questa necessità mortale?”
Marguerite Duras è scrittrice fortemente legata al Novecento, non sarebbe stata lei se non avesse vissuto intensamente quel secolo, di cui porta le stimmate profonde nella carne. E lei fa con la scrittura esattamente quello che il secolo ha compiuto nella Storia: accresce l’inquietudine dell’anima, non dà spiegazioni, non offre certezze, né consolazione, esplora il vuoto attraverso la psicologia, i ricordi d’infanzia, i sentimenti e gli amori forti. Dichiara che vuoto e insensatezza appartengono all’essere umano, anzi lo caratterizzano più di qualsiasi interpretazione insufficiente della realtà. Questa è la scoperta del Novecento, il suo retaggio, questi sono gli studi di Freud e la perdita del senso causata dalle due guerre mondiali a cui la scrittrice dà voce.
Gli anni ’40 sono quelli della perdita del figlio alla nascita, della morte dell’adorato fratello, della deportazione nel lager di Dachau del marito, dal quale lui tornerà straziato. La scrittura serve allora a riportare alla luce “ l’ombra interna” che opprime il cuore, “la scrittura corrente è quel modo di mostrare le cose sulla pagina passando da una all’altra senza insistere o spiegare: dalla descrizione di mio fratello a quella della foresta tropicale, dalla profondità del desiderio a quella del blu del cielo”.
E c’è molto di vero nella sua teoria della differenza di scrittura tra uomo e donna: “La donna è desiderio. Non scriviamo affatto nello stesso luogo degli uomini. E quando le donne non scrivono nel luogo del desiderio, non scrivono, plagiano…C’è un rapporto intimo e naturale che da sempre lega la donna al silenzio, quindi, alla conoscenza e all’ascolto di sé. Questo porta la sua scrittura a quella autenticità che invece manca allo scrivere maschile, la cui struttura rimanda troppo a saperi ideologici, teorici. Insomma, l’uomo è più legato al sapere inteso come bagaglio culturale”.
Negli ultimi annii ricoveri per disintossicarsi dall’abuso di alcol non si contano e la Duras sente avvicinarsi la fine: “È così duro morire. A un certo punto della vita le cose finiscono. Ho paura. Non so dove sto andando. […] Scrivere tutta la vita t’insegna a scrivere. Non ti salva da niente. Me ne vado con le alghe. Non c’è più Duras. È finita. Non ho più niente. Non ho più bocca, più viso. È atroce. Amo sempre mia madre, non c’è niente da fare, la amo sempre. […] Come fare a vivere un poco, ancora un poco?”
E’ come se le tessere del complesso mosaico che è stata la vita di Marguerite si semplificassero e lei andasse a ciò che davvero conta per lei, all’essenza cruciale: la madre, sempre e comunque lei e il suo amore per lei; la scrittura, con l’amara consapevolezza che non è stata salvifica; il viso, quel bel viso di bambina che illumina la copertina de “L’amante”, scomparso da tanto tempo e per sempre con l’uscita dall’infanzia e con l’alcol e infine, soprattutto, la vita stessa che, mentre scivola via, si vorrebbe afferrare e trattenere, mendicandone ancora un po’, sì, ancora un po’ e nonostante tutto.